Riprendiamo il tema degli attacchi di panico dopo averne già parlato in un video precedente (https://www.centropsicologiamilano.com/attacco-di-panico-che-fare/).

Cosa ci racconta di noi quando arriva?
Quale è il significato per la nostra mente?
Quale lavoro dovremmo intraprendere per guarirne? 

L’attacco di panico coinvolge lo psiche-soma ed è costituito da un corteo sintomatologico che rappresenta uno dei nuovi modelli del malessere contemporaneo. A causa dell’ansia, la frequenza della respirazione e del battito cardiaco aumentano, la sudorazione diventa più evidente e il panico dilaga, la paura si autoalimenta e il soggetto si trova risucchiato in una spirale angosciante.

Come prima risposta attribuiamo al troppo stress, alla vita spesso convulsa che svolgiamo la causa principale di ciò che esprimiamo attraverso questi sintomi.. In realtà i motivi per cui ciò accade sono diversi e non così facilmente individuabili. 

Quali sono le cause più comuni degli attacchi di panico?

Innanzitutto dobbiamo considerare  che alcune persone posseggono una vulnerabilità neurofisiologica predisponente da una parte, che però poi, può interagire con degli specifici fattori dirompenti ambientali ( quelli che comunemente diciamo eventi di vita stressanti che non necessariamente hanno  un significato ed accezione negativa). Esistono cioè alcuni elementi che amplificano quelle che sono le aspettative nei confronti di se stessi, facendo rimettere in discussione il proprio assetto interno. Per esempio alcuni importanti passaggi di vita lavorativa o affettiva fanno da vero e proprio detonatore in tutto ciò : pensiamo a cambiamenti che il soggetto deve affrontare per un matrimonio, l’acquisto di una casa, la nascita di un figlio, la fine di un lavoro, la morte di una persona cara…

Questi eventi rappresentano cambiamenti di perdita degli assetti della sicurezza interna riferite a significative figure di attaccamento

Ci sono, a riguardo, ricerche longitudinali che evidenziano come, nei pazienti che soffrono di attacco di panico, molti di questi eventi di perdita possano  essere associati ad esperienze infantili nelle quali era stato minacciato l’attaccamento ad un genitore o ad un’altra figura affettivamente importante. 

Pensiamo, per esempio, alle conseguenze che ha avuto nel cambiamento degli assetti familiari, l’affacciarsi della famiglia allargata, piuttosto che l’inserimento  al nido di bimbi di neanche un anno, tutti aspetti che possono non far sviluppare delle relazioni con un attaccamento sicuro. 

L’allontanamento di un genitore, per esempio, se supera il tempo in cui il piccolo è capace di conservarne l’immagine mentale, scatena uno stato di angosciosa confusione, che rompe il senso di continuità della propria esistenza. Il trauma subìto diventerà, allora, non tanto un passaggio nel corso della vita, ma un evento che la definisce. Per quanto questi stati mentali siano preoccupanti, per quanto attivino processi insostenibili al pensiero, devono essere trattenuti – dal bambino prima e dall’adulto poi – allo scopo di “mantenere intatta la vita”. 

Recenti ricerche, soprattutto nell’ambito delle neuroscienze,dimostrano che il trauma precoce e ripetuto, viene incorporato nella struttura della memoria inconsapevole ( procedurale) e si esprime con risposte automatiche che perpetuano l’angoscia.

Le persone dunque che sviluppano un disturbo caratterizzato da attacchi di panico tendono a vedere la separazione e l’attaccamento come due dimensioni che si escludono reciprocamente. In questa rigidità o se vogliamo mancanza di elasticità, in una attribuzione di significato che si ripropone come un automatismo rigido, il soggetto non ha altra alternativa che esprimere questa sua mancanza strutturale attraverso il corpo, raccontando con dei sintomi imponenti la propria incapacità di risolvere il suo problema con altri strumenti. 

Per fortuna i nostri sistemi conoscitivi e diagnostici sono notevolmente cambiati in questi ultimi anni. Oggi per esempio, a chi si rivolge ad un pronto soccorso, dove viene diagnosticato un attacco di panico o un disturbo d’ansia generalizzato,  gli viene consigliato di rivolgersi ad uno specialista.

Cosa devo fare dopo aver sviluppato un attacco di panico ?

L’ attacco di panico che si presenta con imponenti sintomi fisici, non ha fortunatamente alcuna conseguenza sul corpo, però lascia una traccia sensoriale potente , iscritta nella psiche che potremmo definire paura di avere paura.

Questa traccia sensoriale nel periodo successivo al primo attacco  può trasformare qualunque stimolo prima considerato neutro, come ad esempio una leggera accelerazione del battito nel salire velocemente delle scale, oppure un senso di fame d’aria in un luogo affollato e caldo, in una potente minaccia che l’attacco si stia ripresentando. 

E’ importante ricordare di non attendere  che si ripetano molti altri attacchi ricorrerendo  ad uno specialista, preferibilmente uno psicoterapeuta con competenze in questo campo, che possa valutare un eventuale trattamento farmacologico iniziale, laddove se ne riconosca la necessità, ma anche consigliare un percorso psicologico che possa affrontare quelle problematiche relative al conflitto tra attaccamento e dipendenza.

Mai come in questo disturbo la differenza la fa la psicoterapia. Una volta affrontata, gestita e inquadrata la fase acuta degli attacchi di panico, il lavoro terapeutico viene svolto dapprima esplorando gli ambiti affettivi personali, per poi andare a verificare quanto gli stili di accudimento e di attaccamento genitoriali abbiano influito sull’assetto definitivo della nostra personalità.

Tra l’altro in un recente studio, che ha tra i suoi autori Simon Baron-Cohen e Peter Fonagy ( https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0203886) è stata indagata l’associazione tra le esperienze traumatiche infantili ed i livelli di empatia in età adulta. I risultati sembrano suggerire che coloro i quali nel corso della loro infanzia hanno vissuto esperienze traumatiche, una volta adulti sarebbero maggiormente capaci di rispondere agli stati emotivi degli altri. Il trauma infantile è risultato però associato a livelli elevati solo di quella che viene definita dagli autori come “empatia affettiva” mentre la stessa relazione non si verifica per l’ “empatia cognitiva”. Quest’ultima infatti (definibile con il concetto di “mentalizzazione“) fa riferimento alla capacità di comprendere i pensieri e i sentimenti altrui, cosa che dobbiamo tenere presente quando abbiamo in cura un paziente con alle spalle una storia di questo tipo.

Da un lavoro terapeutico mirato dunque, si potrà arrivare ad un  cambiamento importante che investirà diversi ambiti, con ricadute positive sulla qualità della vita della persona. 

Bibliografia 

De Masi Franco :Psicopatologia e psicoanalisi clinica 2016 Mimesis 

Fisher Janina: Guarire la frammentazione del sé .Come integrare le parti di sé dissociate dal trauma psicologico. 2017 Raffaello Cortina Editore

 Van Der Kolk BesseIl Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche. 2015 Raffaello Cortina Editore

Winnicott D. : Gioco e realtà. Armando 1974

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